FIGURE COME IMPRONTE

di Roberta Valtorta

L’opera fotografica di Paolo Gioli costituisce un episodio assai particolare, possiamo dire eccezionale, nel panorama non solo italiano ma internazionale principalmente per un motivo: non vi è nessun altro artista che abbia così a lungo e così intensamente lavorato nel tempo a convogliare i codici delle arti manuali dentro i codici di un’arte tecnologica quale è la fotografia (e parallelamente il cinema, parimenti da lui scelto come strumento di lavoro da molti anni).

Va subito chiarito che non si tratta, da parte di Gioli, di una posizione definibile come neopittorialismo fotografico: non vi è infatti nella sua opera sottomissione della fotografia alla pittura o alla grafica, né tentativo alcuno di “revisione” pittorica della fotografia volta a colmarne insufficienze di carattere formale. Vi è al contrario una necessaria e “naturale” compenetrazione di discipline fra loro, come se pittura e grafica costituissero una radicata e indelebile memoria, un sostrato primigenio e viscerale della fotografia, una sorta di elemento genetico che riaffiora e le dà corpo. E vorremmo sottolineare la parola corpo.

Anche in base alle teorie sulla fotografia più avvertite e più influenti in anni recenti (da Rosalind Krauss, specialmente con i suoi studi su Duchamp e sui Surrealisti, a Philippe Dubois, con le sue importanti riflessioni sulla natura profondamente indicale dei fotogrammi di Man Ray o Moholy Nagy), questa “coincidenza” fra discipline che troviamo nell’opera di Gioli è leggibile alle luce del concetto di impronta.

Nel suo lavoro la traccia fotografica, dunque l’impronta lasciata dalla luce sul supporto sensibile, ha così bisogno di farsi percepire nella sua fisicità, nella sua corporeità da far ricorso a una matrice precedente e, per così dire, consustanziale, che è quella del segno calcografico e, più lontanamente, del segno primo lasciato dalla mano stessa.

Avviene dunque una intensa con-fusione di segni, tutti volti però, crediamo, a rafforzare il significato di impronta.

E’ molto interessante ricordare a questo proposito che Gioli alla fine degli anni Ottanta realizza una serie di fotografie utilizzando la sua stessa mano come camera obscura contenente la pellicola sensibile, indicando come sia possibile affidare al corpo stesso dell’artista la funzione di camera, di luogo che accoglie la luce che darà esistenza all’immagine: vi è dunque, in questa azione, il significato di una liberazione da ogni tipo di strumentazione meccanica atta a convogliare segni sul supporto sensibile, e l’intenzione di rimandare il farsi del segno fotografico al lontano lavoro della mano dell’uomo.

E sempre a proposito delle arcaiche origini delle figure, Victor Stoichita nel suo Breve storia dell’ombra ci ricorda che Plinio il Vecchio scrive che la pittura nacque quando per la prima volta si riuscì a circoscrivere con una linea l’ombra di un essere umano: la fotografia non ha fatto che spingere alle estreme conseguenze la possibilità di ricavare figure dalle ombre provocate dalla luce.

In un percorso molto complesso e, negli anni, assai denso di stratificazioni, Gioli ha congegnato tecniche che hanno “messo a nudo” la materia e il generarsi dell’immagine fotografica, congiungendo la moderna prassi fotografica alle procedure della grafica ma, ancor prima, a quelle antichissime del calco e del segno tracciato manualmente: prima fra tutte il trasferimento (la stesura) della materia Polaroid, sia quella a colori che quella in bianco e nero, su carta da disegno o su altri materiali quali la seta, che pratica dagli anni Settanta e che lo ha reso noto a livello internazionale.

La sua insistita indagine sul volto e sul corpo, sia femminile che maschile (spesso contrappuntata da ricerche sulla natura morta, che, va sottolineato, rimandano comunque al corpo, e, talvolta, sul paesaggio, inteso come racconto del mondo esterno al corpo), ha trovato proprio in questa particolare tecnica un terreno molto fertile che gli ha permesso un lavoro di grande approfondimento sia concettuale che, per così dire, procedurale. Gioli infatti perviene all’immagine penetrando nella materia della fotografia e giungendo a plasmarla, rivelandone le molteplici stratificazioni (quasi una geologia della materia fotografica) e una sorta di interiorità, raggiungibile solo in base a lunghe procedure e a ripetuti attraversamenti.

Recupera così il valore del gesto, dell’azione, del lavoro della mano che si unisce a quello della luce che agisce all’interno della macchina sulla pellicola, nello sforzo di dotare la fotografia di una durata temporale nuova e profonda. Impiega reiterazioni, sdoppiamenti, lacerazioni, predispone traiettorie, spessori, dilatazioni, tutti momenti di una messa in codice attraverso la quale egli discute costantemente il rapporto fra realtà e apparenza, corporeità e immagine (sia del mondo reale che della fotografia stessa), definitezza “realistica” delle figure (dato il forte legame fra fotografia e referente) e loro irrimediabile, drammatica instabilità.

Tutta la fotografia di Gioli, così come il suo cinema, può infatti definirsi nei termini di una drammatizzazione della materia, e non a caso egli applica questa drammatizzazione a ciò che è più vicino alla vita e al tempo che trascorre e agisce: il corpo e il sesso. L’immagine dunque è totalmente messa in scena, nessun interesse è volto alla realtà visibile nella sua immediata esistenza: la posa, che è già un modo di indagare il soggetto, benché progettualmente ridotta al minimo ha, nella fotografia di Gioli, grande importanza: risiede negli occhi di un modello, nell’orientamento del volto, nel modo di stare di una mano, nella composizione degli oggetti. Nulla è mai “come è”, ma come “viene posto” davanti alla macchina e allo sguardo. E questo è un primo momento della drammatizzazione. I processi a cui poi Gioli sottopone la materia stessa della fotografia potenziano e giungono ad “esibire” la drammatizzazione. La materia sensibile Polaroid non sta “dentro” il suo tradizionale supporto, ma viene portata “fuori” e depositata su un supporto altro, la carta da disegno; l’integrità del soggetto, la sua interezza, vengono “disturbate” da interferenze di tipo grafico e da alterazioni del colore (ottenute per vie fotografiche, dunque generate dalla luce) che ne distruggono la continuità e lo spostano in una dimensione straniata.

Se si supera un primo impatto con le figure di Gioli, che trasmettono subito un grande senso di complessità (grovigli di segni, talvolta), non è difficile vedere che in fondo egli basa il suo lavoro su pochissimi e ripetuti elementi, si potrebbe dire con semplicità domestica: solo un volto e solo quello (nemmeno il collo, quasi nemmeno i capelli), una semplice foglia o un fiore (però attentamente scelti e tolti da qualunque contesto reale), una mano (isolata come un reperto). Ma la semplicità di partenza e la radicalità della scelta originaria, che sono azioni di prelievo e di straniamento governate dai meccanismi tipici del ready made, vengono successivamente trascinate in un percorso dinamico che porta appunto alla stratificazione e alla rivelazione di più identità e di più livello di lettura, fisici, psicologici, esperienziali, dell’immagine. Essa viene,come si diceva, “drammatizzata”, messa in movimento dunque, tolta dalla sua condizione di chiarezza, e spinta, anche da un punto di vista semantico, in una dimensione che la rende polimorfa, misteriosa e interrogativa. In questa profondità, la fotografia di Gioli non è, come avviene nella fotografia ortodossa, ri-presentazione del soggetto, ma vera e propria rappresentazione: ecco perché vi è necessità, da parte dell’artista, di richiamare in causa la memoria della fotografia, che significa la pittura e la grafica quando non il teatro stesso (come ci ricorda Roland Barthes), cioè le arti della rappresentazione che hanno preceduto e predisposto la nascita della fotografia, arte, di per sé, della pura ri-presentazione. Definiremo allora la fotografia di Gioli, con i suoi colori pulsanti, la forte messa in scena, l’instabilità delle forme, il continuo ricercare il possibile senso della materia - come una indagine sulle origini, sul venire al mondo e sulla fisica, mutevole identità di tutto ciò che vive e transita, a partire da se stesso.