Jaime Poblete
Pietro Giovannoli
Fin dalle sue primi fasi, già caratterizzate da una rigorosa ricerca tecnica e compositiva, e addirittura a partire dai suoi esordi figurativi, l’opera di Poblete si è sviluppata attraverso una continua riflessione sull’essenza propriamente materiale dell’oggetto artistico. Essa pone al suo centro l’equilibrio formale e l’esercizio gestuale, attività manuale e concettuale che si vuole, attraverso la pratica della reiterazione e della variazione, ricerca e al tempo stesso scoperta.
Questa attenzione verso tecniche e supporti, che affonda le sue radici nelle precedenti esperienze dell’autore come scenografo di teatro e restauratore, non si limita all’aspetto ideativo-concettuale del processo creativo ma indaga la nozione di trasformazione e di fisicità dell’oggetto artistico nella sua relazione con la luce, con lo spazio e con il tempo.
Con i recenti Untitled (red structure) e Untitled (black structure), opere analoghe e complementari, entrambe del 2022 – che insieme alla sedicente assenza di titolo condividono tecniche e dimensioni – Poblete, operando una sintesi tra Morris e Beuys, prosegue la sua sperimentazione relativa alla piega e alla cucitura. Questo approccio, legato alla tessitura e memore del collage, oltre a ritmare la composizione suddividendola in porzioni rettangoloidi, celle irregolari, modula plasticamente la struttura ondulandola leggermente. L’uso della cera d’api, a cui si deve la particolare luminosità di resine e pigmenti, oltre a costituire certamente un elemento simbolico, accentua la profondità e la lucentezza dei colori sulle superfici piane e curve. In questo senso, il nero di Poblete è, come ha intuito Roberto Borghi, una vera unione di ater e niger, una atra nigredo, che riflette dunque sulla natura fisica e ottica dei pigmenti, sul loro essere nello spazio (come nel caso delle sfumature della Houston Chapel di Rothko) e nel tempo (per esempio con il deteriorarsi così violento, guarda a caso, dei monocromi malevicani).
Nella concezione dell’autore, che in più luoghi rivendica la sua natura di pittore, le pieghe e le cuciture del tessuto perseguono un superamento dell’identità bidimensionale, frontale e ortogonale di quadro, e infatti ne deformano l’organizzazione profonda, come già accadeva per esempio, con modalità ben più radicali, nell’intelaiatura trapezoidale di Untitled, 2019 (little black).
Il trattamento di piegatura e cucitura del tessuto tinto, oltre a ordinare gli spazi in una accumulazione di morfologie simili, crea una moltiplicazione prospettica, che trova una controparte filosofica nel concetto di “piega” di Gilles Deleuze.
Nonostante l’equilibrio strutturale garantisca alla visione di insieme dell’opera una sua elegante e pacata finitezza, lo sguardo dello spettatore è spinto a muoversi, come in un paesaggio o in un’architettura, su curve, vagando e perdendosi in sfumature e riflessi.
A metà strada tra il concept postindustriale e il manufatto preistorico, tra l’alta moda e l’objet cubo-surréaliste, le tele e i tessuti di Poblete sembrano tende, veli, parochet, pacchetti, sipari, involucri, imballaggi, sudari o legature rituali: pieghe e cuciture formano infatti, e prevedono, oltre agli infiniti piani delle loro superfici, uno spazio o un luogo secondo, interiore e non visibile, apparentemente inaccessibile.
Entrambi questi Untitled sono inoltre costruiti simmetricamente a partire da un’asse verticale centrale che, oltre alle dorsali e ai tagli e squarci con analoga funzione di opere precedenti (in cui appariva insistente la TAU), ricorda la linea di separazione tra gli sportelli chiusi di un trittico e rimanda ancora, per sua stessa natura, in una specie di tensione tra mutismo e potenzialità, ad un oltre che, sebbene occultato, è suggerito da volumi e superfici.
Rafforzano questo simbolismo le scelte cromatiche dei neri – sovente prodotti dall’alchemica combustione di opere precedenti e affetti personali – particolarmente presenti in Poblete, e dei rossi, pigmenti primordiali, terrosi e sanguigni, entrambi evocatori del fuoco, cari all’autore per le loro connotazioni mitico-sciamaniche (su tutti si fa notare il riferimento alla cultura Mapuche), apotropaiche e allusive dei riti di fondazione. Ricerca formale sulla materia, quella di Poblete, che invita dunque anche a una riflessione metafisica: le sue strutture si presentano infatti come reperti – alieni eppure così umani, misteriosi e oscuramente intelligibili – che rimandano, come le ombre platoniche, a un senso ulteriore.
La dialettica cromatica tra rosso e nero, declinati in ruggini e grigi, e la suddivisione della superficie in una sorta di griglia sono componenti strutturali anche di altre due opere senza titolo, del 2022, appartenenti rispettivamente a due diverse serie di Camouflages, nelle quali appare incisivamente la traccia, ripetuta e diversificata, del gesto pittorico.
La trama delle pieghe non suddivide qui soltanto lo spazio, ma ordina e ritma l’irruenta composizione pittorica, costituendo una sorta di dialogo tra forme spaziali e segni bidimensionali nell’accumulo di piani, di linee di forza e di intensità cromatiche.
In queste due tele, di dimensioni leggermente più ridotte rispetto ai tessuti cerati, i pigmenti e la resina acrilica sono utilizzati con una funzione più tradizionalmente “pittorica”, e registrano in macchie, tracce e segni l’azione creativa. L’accumulo di grovigli e sovrapposizioni non evoca però l’emersione di un caos vorticoso bensì, nella sua tensione organica o geologica fra forme biologiche e geometriche, una sorta di cosmo, di ordine in qualche modo autosufficiente.
Questa pittura della superfice e dell’oltre appare con insistenza lungo tutta l’opera di Poblete, e si osserva anche in due monotipi senza titolo del 2020 dal gusto maggiormente fotografico che dialogano, rispettivamente, con le strutture e i Camouflages.
In queste stampe, prossime nel risultato a fotografie, l’inchiostro litografico costituisce non la figura ma lo sfondo, il pretesto per l’apparizione della luce che irradiata dal bianco dei lavori di spatola produce mirabolanti giochi ottici e dinamiche trasparenze, rimandando ancora una volta alla tensione tra luce e materia, tra idee e cose.