TOVAGLIE E TOVAGLIE

Giuliano Collina

Tovaglie: dapprima nello studio di Maslianico e poi in quello successivo in Ticosa a Como; era quello il soggetto del mio dipingere perseguito senza deviazioni, senza pause per qualche anno e più ancora. Tovaglie e soltanto quelle, senza un diverso ricercare, senza volerne trovare di nuove, soltanto con quanto era loro appena necessario per apparire come tali. Tovaglie non particolarmente significanti né per come erano state usate, né per un qualsiasi altro significato aggiunto (per esempio non per il loro “vissuto”).
La ricordo con sufficiente nitidezza, o così mi pare, quella mattina in cui, intanto che girovagavo nel mio vecchio studio grande e luminoso, loro mi apparvero per quello che erano prendendo dentro di me il sopravvento su quello che fino ad allora avevo dipinto. O meglio, da mesi la mia pittura si consumava nel segno della “natura morta”: cose, oggetti d’uso, pochi e non certo esaustivi delle loro funzioni, non trionfi di fiori o di frutta, né tanto meno strumenti di lavoro, ma semmai soltanto qualcosa di tutto ciò e poi di seguito sempre meno: un piatto solo, una scodella vuota e non le posate, ma soltanto una, solo un coltello o un cucchiaio. Perché? Perché nel fare avevo creduto di capire che un solo coltello o un solo cucchiaio erano di per sé ben più significanti di una intera “attrezzatura” da tavola. Un piatto vuoto o meno ancora, magari solo un boccone di pane, o soltanto una briciola. Quella lì da sola a significare non certo una perdita, ma semmai soltanto la cosa in sé… solo se stessa.

Sempre meno per ottenere di più e così fino a quella mattina in cui mi resi conto che il percorso (al risparmio) non era finito, c’era ancora spazio per un’ulteriore riduzione, non più solo una cosa, ma soltanto il luogo delle cose: la tovaglia, appunto.
Ed eccomi un po’ sorpreso, anche un po’ intontito, ma comunque speranzoso in un futuro “di tovaglie”. Evviva! Eccomi a tu per tu con un tema che a poco a poco si rivelava non in quanto rimasuglio, ma come nuova avventura. Non stoffe colorate, ma cose finite, poche forme e pochi colori: rettangoli e quadrati proprio come le tele sulle quali le avrei dipinte, magari con i soli colori primari, il giallo, il rosso, il blu alternati al bianco come nella maggior parte delle tovaglie per formare reticoli quasi regolari e sempre gli stessi: quadrati, quadratini, rettangoli, non altro. Poche forme e pochi colori, ma del tutto definibili e precisi così da riempire un luogo soltanto loro dove la perpendicolarità era così indispensabile, così doverosa da non permettermi particolari devianze. Che bella quella mattina, perché mi aspettava il compito di realizzarli quei quadratini e che bello quel giorno anche e soprattutto perché, come credevo, avrei saputo come fare: facili e divertenti, semplici se non mi fossi impegolato in fascinose alternative. La misura della mia prima tovaglia non fu dappoco, cm. 200x280. Oggi lei sta appoggiata a rovescio, in un angolo contro una parete del mio nuovo studio, e da allora non l’ho più guardata e forse nessuno l’ha mai vista. Oggi è inamovibile, perché troppi sono i quadri che le sono stati ammucchiati contro, ma è lì a testimonianza di un principiare continuato poi per mesi, anche anni, con un solo momento un po’ diverso, quando, per effetto del trasloco, mi trovai impedito per alcuni giorni nelle mie abitudini quotidiane, quando i miei materiali di lavoro, le mie attrezzature, finirono distribuite per metà ancora imballate nel vecchio studio e per metà nel nuovo da disimballare. Allora le cose più alla portata erano grandi fogli di carta bianca, qualche pennino e un po’ di inchiostro nero, non altro, ma sufficienti per osservare le tovaglie più da vicino nella loro trama e nel loro ordito. Un po’ di disegno e qualche tela fino alla ripresa dei quadrati e dei rettangoli, pitturati, verniciati, … dipinti.
Dunque tovaglie, tovaglie. Non composizioni geometriche, non astrazioni.

Como, 15 gennaio 2023