Vi sono state epoche in cui l'uomo ha potuto riconoscere se stesso e la propria visione del mondo nelle immagini prodotte attorno a lui; così l'uomo medievale nei rilievi delle cattedrali, in altro modo, dovendo magari rendere omaggio ad un imperatore raffigurato aureolato d'oro, percepire la distanza che lo separavano da esse. L'attuale immaginario collettivo è determinato e sostanzialmente trae motivazione, dall'onnipresente ed invasiva immagine fotografica che, con la sua tecnologia, ormai crea la realtà. Nell'attualità dell'arte contemporanea, questo dato è rimarcato da una diffusa, passiva assunzione dell'utilizzo della fotografia - spesso in modo del tutto ripetitivo evidenziando e ingigantendo solo un presunto aspetto di fedeltà documentaria o l'attuale strabiliante possibilità manipolativa o persino rimarcando un'imperizia che, nell'intenzione degli autori, di per sé verrebbe ad essere significante - e mettendo in secondo piano l'imprescindibile riflessione attorno alle necessità espressive contemporanee e sulle conseguenti considerazioni metodologiche sui procedimenti e le loro implicazioni linguistiche.

Da tempo, l'agire artistico ha abbandonato le delimitazioni, le categorie, optando per un'indefinita multimedialità facendo di questa la sua stessa ragione d'esistenza e, spesso, qui perdendosi. Rarissimi sono i casi di operatori che hanno saputo continuare a lavorare con i mezzi della propria disciplina e al contempo innovarne le metodologie sovvertendone i codici. L'opera di Paolo Gioli nel tempo si è evoluta mantenendo come principi la fedeltà alle peculiarità della fotografia, non escludendone alcuna, prendendo operativamente le distanze dal semplice, ma imperioso, mezzo operativo - la fotocamera, prima meccanica ora digitale - imperniando così il suo lavoro sull'essenza stessa della fotografia, sull'attenta considerazione in merito alle sue diverse possibilità espressive, evolvendo una costante sperimentazione tecnica, elaborando una riflessione metodologico - concettuale, finalizzandole ad avvalorare il portato etico e poetico delle sue opere. Così, il totale abbandono della fotocamera e l'impiego, da parte di Gioli, della fotografia stenoscopica, operata vuoi con una conchiglia, un bottone, o con la stessa mano chiusa a pugno, annulla proprio quell'apporto tecnologico che verrebbe a costituirsi quasi come interferenza nel fissarsi dell'immagine che così, invece, nell'utilizzo di un minuscolo foro privo di lente praticato, o trovato, in un comune oggetto, si attua nell'immediato suo essenziale definirsi, eludendo compromissioni e ristabilendo il semplice, ma meraviglioso dato, che la fotografia è il mondo, poiché tutto ciò che in esso è, come nella fotografia, è determinato dall'azione della luce. Questa strategia di eludere la costrizione tecnica, attuando tattiche che stravolgano il dominio tecnologico, tocca il suo apice nell'impiego, da parte di Gioli, dei materiali Polaroid dove le metamorfiche peculiarità del medium, nel suo fornire istantaneamente un prodotto, un'immagine "finita", vengono totalmente trascurate a favore di un operare lento che prevede un iter agli antipodi, costruito su una serie di operazioni e interventi unici e irripetibili che danno origine ad un'immagine e ad un'opera altrettanto esclusiva. Tutto quello che si compie nelle fotografie di Gioli, pur aggirando il costrittivo dettato tecnologico, in ogni caso si definisce tramite tecniche pertinenti unicamente l'ambito dei procedimenti fotografici primari; essenza stessa della fotografia posta in atto. Nulla di esse è conseguente a tecniche di ritocco a modificare quanto dall'autore definito nell'agire con la ripresa stenopeica e nella successiva, fondamentale manipolazione nella camera oscura. Lo stesso impiego di materiali nelle loro origini e destinazioni differenti, pressoché contrastanti, come la carta da disegno dei supporti, la loro preparazione - con acrilico e rosso d'uovo, come moderne tavole trecentesche - ad accettare il materiale tecnologico della camaleontica sostanza Polaroid, è consapevole interferenza di materiali, continua instancabile ricerca, dichiarata, inesauribile spietata indagine di metodo, rigorosa verifica dei rispettivi codici. L'inevitabile raffronto con opere pittoriche viene così a determinarsi nella straordinaria complessità di queste opere: complessità di linguaggio e di segni che le compongono e che sono indiscutibilmente afferenti alla storia, pittorica e fotografica, dell'arte.

L'opera è imperniata sulla presenza di un'immagine - che è prospettata in una delimitazione irregolare dei formati e nelle conformazioni perimetrali, ideati e definiti da Gioli con interventi compositivi - che, pur avendo un soggetto evidente, viene a definirsi come impossibilitata ad assumere un'identità, costituendosi come frammento, tentativo d'approssimazione, d'immedesimazione in una condizione; momento che, di per sé, si porge come assoluta interpretazione del reale, diametralmente opposto ad una mera specificità descrittiva. Le immagini quando sono riferite al corpo umano, sono sempre particolari di esso, volti, mani, torsi, in riprese ravvicinate, contornate da margini come ripetutamente precisati, attraversate da squarci, avvampamenti, consunzioni del colore; esse escludono l'insieme, rendendo così anonimo il contenitore, il veicolo della nostra umana avventura, sorta di continua analisi, esigenza di ricuperare e sedimentare memoria. A volte i torsi, nella postura, richiamano, quasi sovrapponendosi ad esse, immagini di dolore - ecce homo - di Antonello, del Mantegna, oppure nei Volti, ricordano folgoranti sguardi, indelebili espressioni di ritratti pittorici, o nelle Mani, nelle Maschere, i calchi rintracciabili in vecchie enciclopedie con illustrazioni di uomini illustri, o nei ritratti ad encausto del Fayum: tutti umanissimi, non fotografici, tentativi di fissare e perpetuare l'esistenza fissandone la memoria, operazione che Gioli, fotograficamente, sembra voler citare in un raffinato gioco speculare di rimandi esistenziali, iconici e culturali. La carta da disegno, ruvida e cedevole, che accoglie questi lacerti d'immagini, porta in sé segni, scalfitture, abrasioni, impronte, gesti improvvisi, ostinatamente iterati, quasi a ricostruire una situazione, a scavare, a ricuperare passaggi di cui non esistono più che tracce, frantumi allontanati e dispersi nei ricordi. A volte questi segni prendono un aspetto progettuale più dichiarato, sorta di costruzione che si sovrappone all'immagine allontanandola ancor più, aumentando la percezione di una qual distanza tra dati dissimili; presenze quindi che si definiscono come stratificazioni di distinte operazioni e percezioni, scansioni di diversi momenti, continua interrogazione ai materiali, ai procedimenti, all'immagine che appare così dotata di un'infinita complessità, venendo a testimoniare un'urgenza definitoria reale, le cui azioni e gesti, di volta in volta si presentano come sicuri, espansivi, lirici, altre come lesioni, oltraggiose abrasioni, stimmate. Spesso l'immagine è una parte dell'anatomia di donna, un seno rotondo e morbido, accarezzevole, istintivamente sensuale, come ricordato in sogno, partecipe di giorni e travagli, appena sfiorato da un dito, costante fonte di turbamento, di prove e piaceri condivisi o solo adombrati. Oppure è l'inguine femminile, con il pube dal delicato misterioso vello sfuggito da umilianti tagli, libero ad espandersi naturalmente; a volte, come amica o indugiando, vi si adagia una mano o, avulso vi si affaccia, trasparente bellissima metafora, un pezzo di pane, così come estranee compaiono efflorescenze dalle allungate forme falliche. Difficile ricordare, nella storia della fotografia, immagini che ci sanno parlare dell'amore carnale, della sua inquietudine, con così grande, intima levità. Nulla di queste immagini potrebbe avere riferimenti diversi da quelli universalmente rintracciabili e motivabili nella quotidiana umana sensualità e nella sua più alta trasfigurazione poetica; ben altra volontà di senso e meditazione esistenziale del diuturno massacro della divulgazione erotica. Un elemento non secondario nelle fotografie di Gioli è quello aleatorio. Nonostante i procedimenti siano minuziosamente controllati nelle sequenze, nelle operazioni, nei materiali, compare costantemente un premeditato ricorso ad un'induzione di risultati aleatori, dove l'esito finale rimane pur tuttavia conseguenza sì voluta ma non asservita, né del tutto prevedibile. E' questo un modo di operare che fa della componente aleatoria un elemento di forte valenza espressiva: emblematica celebrazione del verificarsi della variabilità come parte dell'iter dell'esistenza, metafora dell'unicità, dell'imprevedibile fluire della vita, aspetti di una visione del mondo che possiamo trovare in certe esperienze e forme espressive sperimentali in particolare quelle New Dada, di un J. Cage o un R. Rauschenberg, che Gioli aveva avuto modo di conoscere nella seconda metà degli anni Sessanta durante la sua permanenza a New York e che ha saputo ridefinire in una complessa visione più pertinente alla cultura europea. Un vero combattimento amoroso con l'immagine, quello di Gioli, che include nelle sue tattiche, il rigore nella determinazione procedurale, la sospensione dell'attesa, la frenesia della congiunzione nelle elaborazioni tecniche, l'inarrivabile poesia dei risultati. Per parlare d'amore per la fotografia, d'amore per la vita, è bastevole una delle fotografie di misurate dimensioni, esposte in questa mostra: sopravanzano di gran lunga ogni volontà di stupire di chi vanamente ricorre al gigantismo, alla ripetitività, alla tecnologica perfezione.

Appena prima di rinunciare alla vita, è probabile che Debord abbia guardato nuovamente il suo incendiario libello, poteva avere ormai la certezza che quello che doveva esser un grimaldello avverso la spettacolarizzazione della società si era trasformato in un best seller, consigliato libro di testo per giovani rampanti della comunicazione: forse, per interpretare, capire, eventualmente sovvertire il mondo, può rivelarsi più utile la bellezza di una fotografia. Di questo e altro, si parlava quando siamo stati, Renato Folini ed io, un giorno di mitigata calura di settembre, a vagare per strade sterrate nei dintorni di Lendinara, cercando d'individuare tra argini e pioppi, la dimora di Paolo Gioli, della fotografia, grande, riconosciuto maestro internazionale, che ha esposto le sue opere nei maggiori musei e manifestazioni, presente nelle più importanti collezioni di fotografia del mondo, parimenti maestro di alcuno, perché nessuno sa ed è capace di seguirlo.

Domenico D'Oora.