La struttura della natura e viceversa

Roberto Borghi

Dal cubismo al classicismo: estetica del compasso e del numero, il libro di Gino Severini che sancì ufficialmente il ritorno all’ordine della scena artistica europea dopo la stagione delle avanguardie, ha esattamente cent’anni e li dimostra tutti. Sconvolto dalla catastrofe della Prima Guerra Mondiale e amareggiato per l’inadeguatezza del futurismo a cogliere il mutamento della società europea, Severini nel 1921 è

un uomo che ritiene di aver trovato nuove certezze estetiche ed esistenziali nei principi di esattezza e armonia, «leggi fisse e inviolabili» che devono necessariamente sovrintendere alla creazione artistica se non si vuole scadere nell’«anarchismo compositivo». Il modello armonico di riferimento è la sezione aurea, magnifica ossessione di una fitta schiera di poeti, pittori e architetti del Novecento (di cui Valery e Le Corbusier rappresentano le figure di spicco) che scrutano la natura in cerca di una perfezione matematica da contemplare e replicare. Tra i sostenitori del ritorno all’ordine dilaga la moda delle «analisi armoniche» di volti e corpi umani, ma anche di minerali, fiori, foglie e conchiglie: soprattutto, o forse solo in maniera più tenace e scrupolosa, di conchiglie, e in particolare di una conchiglia, la nautilus, sinuosa e leggendaria più di tutte le altre.

Cos’è rimasto oggi di tutto ciò, di questa grande suggestione collettiva che faceva coincidere il segreto della bellezza della natura con una formula matematica? Nella pratica artistica quasi niente, nell’immaginario di massa forse qualcosa, ma qualcosa di sottilmente conturbante. O almeno questa è la sensazione che scaturisce dal constatare come il tracciato aureo della nautilus, durante gli ultimi due anni, sia riaffiorato nelle immagini pubblicitarie che promuovono auto innovative e computer pioneristici, cioè oggetti tecnologici che pretendono di competere in perfezione con la natura. E anche se in questo caso si tratta di una pretesa goffa, perché troppo scoperta nel suo intento commerciale e nella sua resa formale, rimane il sospetto che sia ormai la tecnologia, e non certo l’arte, a essersi assunta il compito di scandagliare il mistero della dimensione organica, ma con la finalità implicita di sostituirla.

Per quasi mezzo secolo le arti visive si sono spese affinché la natura si liberasse dal dominio dell’uomo e dalla sua longa manus scientifica, industriale, tecnologica. Dalla pittura informale degli anni Quaranta e Cinquanta (che in Italia ha avuto una delle sue espressioni più significative nel gruppo degli ultimi naturalisti varato da Francesco Arcangeli) alle installazioni di Art in nature degli anni Ottanta e Novanta, abbiamo assistito al medesimo tentativo di ripristinare la purezza perduta del mondo naturale, di attingere dalla sua energia primordiale, di esaltarne il potenziale generativo rendendolo evidente attraverso opere tutt’altro che prive di contraddizioni interne. Troppo spesso infatti la rivolta antindustriale e una sorta di spiritualità panteistica hanno rappresentato dei pretesti per interventi titanici finalizzati a mettere in luce più il desiderio di grandeur dei loro artefici che la sostanziale grandezza della natura. Con gli anni Novanta la ricerca artistica si è sempre più focalizzata sulla polarità naturale/artificiale ed è stato soprattutto allora che si è dovuto fare i conti con l’invadenza della tecnologia, ma in fondo anche con quell’idea di struttura fondata sul binomio ordine e funzionalità che la costituisce nel profondo. Se la tradizione maggioritaria del secondo Novecento guarda al mondo organico soprattutto come a una dimensione pulsionale, aliena dalla razionalità, destrutturata e perciò feconda, come a una sorta di sacro caos, ecco che l’irruzione dell’artificiale rimette in discussione alcune certezze consolidate. Possiamo concepire il naturale al di fuori del rapporto con il suo opposto? La natura come emblema di disordine ed ebbrezza non rischia di naufragare nell’inattingibilità più assoluta, in un altrove tanto remoto quanto concretamente inaccessibile? In ogni caso, al netto delle risposte che possiamo dare a questi interrogativi, la tecnologia è già tra noi, con la sua pretesa di organizzare (e artificializzare) pervasivamente il mondo: dobbiamo venire a patti con l’idea di struttura, riformularla in un’ottica vitale, se vogliamo davvero salvaguardare la natura. Viceversa, se crediamo che l’idea di struttura sia irrinunciabile, se riteniamo necessario che il nostro rapporto con il reale venga mediato da uno schema, se crediamo nelle virtù della tecnologia, magari anche solo sul piano estetico, dobbiamo contaminare l’ordine con il risvolto pulsionale e misterioso della natura, dobbiamo fare in modo che la complessità del reale possa essere ricondotta a una rappresentazione ordinata ma allo stesso tempo non opprimente e monopolizzante.

Natura-struttura non è che una variante di altre celebri antitesi che hanno attraversato la modernità: in chiave artistica, la sua traduzione più diretta è vita-forma (la vita sfugge alla sua formalizzazione, la forma vorrebbe fare a meno della vita, secondo uno dei temi ricorrenti delle poetiche novecentesche). Io le preferisco la trasposizione più squisitamente filosofica di caos-kosmos, un’antinomia le cui radici affondano nell’origine stesso del pensiero occidentale, ma il cui rinverdimento è avvenuto nel secondo Novecento a opera di Gilles Deleuze e delle sue riflessioni sulla caosmaticità dell’arte, sulla compenetrazione vicendevole tra caos e kosmos che contraddistingue la creazione artistica. Sulla scia della reciprocità e dell’intersezione enucleate da Deleuze, proviamo a guardare i lavori pubblicati in questo catalogo nella logica del viceversa: cerchiamo di scorgere la struttura in immagini che ci mostrano la natura, e la natura là dove si impone visivamente la struttura.

Possiamo allora cominciare dal lavoro di Paolo Gioli, attratto com’è dai versanti caotici, istintuali, quasi ferini del corpo, tutto teso a una carnalità assoluta. Ma è poi così assoluta questa carnalità? Non si misura forse scientificamente (ancor più che in altri artisti-fotografi-videomaker, ma in modo più dissimulato e più astuto) con la tecnologia dell’immagine per antonomasia, con quella macchina ottica che è l’apparecchio fotografico? Che dire poi del ciclo di opere presentate da Folini Arte nel 2007, imperniato sulla scansione meccanica, rigorosa, inesorabile del fotofinish?

Agli antipodi di Gioli, l’astrattismo di Italo Valenti è stato tra i più disincarnati, soavi e adogmatici che abbia conosciuto la pittura del secondo dopoguerra. In anni in cui gli artisti potevano togliersi l’un l’altro il saluto per questioni di angoli retti, Valenti ha spogliato la geometria di ogni possibile dispotismo, l’ha resa una garbata intelaiatura dell’immagine, l’ha utilizzata come se fosse la punteggiatura di un racconto allusivo.

Un altro pittore-narratore (ma di storie più movimentate anche se non meno infantili di quelle di Valenti) qual è Giuliano Collina si è imbattuto per la prima volta in una struttura quando ha deciso di sfilacciare uno dei suoi oggetti totemici per vedere com’era fatto. La tovaglia protagonista di molti suoi dipinti è divenuta in tal modo un intreccio di vibrazioni, una fitta teoria di linee ondulanti, tremolanti, senza dubbio appagate della loro atipicità e del loro scompiglio. Oggetto totemico è una formula adatta anche a definire il ruolo che ha la scala nel percorso espressivo di Luca Mengoni. Totemico nel senso proprio del totem, di quel simulacro del divino venerato da popolazioni tribali istintivamente persuase della sacralità della natura. Nell’iconografia di Mengoni la scala è spesso associata alla rosa canina (una pianta reticolare dalla forte carica suggestiva) in un gioco di scambi tra natura e struttura che confonde felicemente i due termini.

Se per Collina la struttura è l’esito pressoché casuale di un processo creativo, per Francine Mury e Valentina D’Amaro è invece all’origine del fare pittura. Mi sto riferendo a una struttura non visiva, ma filosofica e spirituale, a una matrice orientale che influisce in modo antitetico sulla trattazione della natura. Se il mondo organico nel lavoro di Mury appare in modo implicito e fluido, in quello di D’Amaro si palesa in modo esplicito e compresso. In Mury il cuore del problema è come manifestare certi passaggi, certi stadi della fluttuazione del reale, in D’Amaro come giungere a una densità emblematica, a uno stato di sospensione totalizzante: in entrambi questi percorsi resta sul fondo la sensazione di qualcosa di recondito, di un mistero inebriante proprio perché inviolabile. Anche le opere di Domenico D’Oora, Marco Grimaldi, Jaime Poblete sembrano porsi sotto il segno della struttura, ma in maniera molto più sfumata e a volte tormentata di quanto appaia. Forse l’arte di D’Oora, più che nella sua assertività, andrebbe focalizzata nelle sue anomalie, nelle sue slabbrature, nelle sue devianze rispetto al canone della tradizione analitica: allora probabilmente vedremmo quanto irregolari e sommersamente liriche siano certe sue traiettorie orizzontali, quanto esoso sia il suo oro e quanto il suo bianco si avvicini più a quello di Valentino Vago che a quello di Enrico Castellani. Nei dipinti di MarcoGrimaldi la struttura visiva è composta da apparizioni, da bagliori condensati, da infittimenti luminosi: al fondo di queste pulsazioni sembra collocarsi la pulsionalità della natura umana, la cognizione della provvisorietà della luce mescolata con la consapevolezza della precarietà dell’esistenza, una sensibilità tanto elegante almeno quanto dolente. Per Jaime Poblete ha un valore strutturale il gesto di piegare ritmicamente il tessuto e dare così un ordine alla materia: un ordine però attenuato, quasi sabotato dalla ruvidità della superficie, dalle screziature del colore, da certe venature sospette che lasciano filtrare delle schegge di caos.
Avrei la tentazione di leggere in coppia le opere di Vincenzo Cabiati e quelle di Roberto Fanari: probabilmente perché so che in entrambi i casi mi troverei di fronte a lavori con molteplici rimandi all’arte del passato, a calchi di un immaginario remoto ma tutt’altro che inattuale.
So anche tuttavia che il neoclassicismo di Fanari, con la sua tensione analitica e modellizzante, ha poco da spartire con il barocco e il rococò di Cabiati, espressioni di un inconscio fiorito e di un ricercato gusto del bizzarro. Se c’è poi un elemento che li differenzia in profondità è proprio la relazione con la natura: pura, sostanziale, strutturale per Fanari, carsica, incidentale, contaminata con molteplici sfaccettature dell’iconosfera in Cabiati.

Decisamente impuro, contaminato, è anche il rapporto che le opere di Debora Hirsch instaurano con la natura. Il fattore di contaminazione è costituito dalle nuove tecnologie, dall’universo digitale e dallo straripamento coercitivo di immagini che ne consegue. Dettaglio significativo: Hirsch ha un atteggiamento mitridatico nei confronti di questo mondo. Ne assume nella sua pittura dosi minute, sapendo che è un veleno inevitabile da cui solo così si può difendere. Quando si focalizzano sulla dimensione naturale, i suoi dipinti ne mettono in luce i versanti enigmatici, certi assetti arcani, dei meccanismi ben più ancestrali di quelli su cui si regge la tecnologia.
Se per Hirsch la natura è un argomento preminente ma non esclusivo, per Cosimo Filippini è invece il soggetto costante dei suoi lavori. Già, ma quale natura? In primo luogo il paesaggio, la sua trama cromatica, i suoi risvolti cangianti. Le opere più recenti tuttavia, pur mantenendo lo sguardo sul filo dell’orizzonte, compiono un’alterazione, marcano uno sfasamento che introduce delicatamente degli elementi di gioco e di mistero. Anche Filippini, come gli altri artisti raccontati in questo catalogo, può contare su di una sensibilità strutturata che, nel suo caso, si manifesta anzitutto nell’attitudine tassonomica, classificatoria.
Stavolta però è una natura che sfugge alla classificazione nella stessa misura in cui invita alla contemplazione.