Appunti su una visita fugace allo studio di Giuliano Collina
Manuel Rossello
Lo studio comasco di Giuliano Collina, a cui si accede da un cavedio, è l’ala di una antica fabbrica (forse una seteria) dal soffitto altissimo, lugubre e fastoso allo stesso tempo, con finestroni e lucernari che lo arieggiano. Ciò che colpisce, varcata la soglia, è la varietà di materiali e di formati che si affastellano nel grande spazio: pareti ricoperte di pitture secche e altre ancora grondanti, enormi fogli appesi come feticci che penzolano sinistramente nel vuoto, secchi ricolmi di brandelli di carte e tele, frammenti ferrei indecifrabili, bulbi misteriosi...
In questo “gliommero” di opere finite, impostate, riprese, ripudiate, l’accumulo di “scarti” (le virgolette sono d’obbligo) o prove giudicate non riuscite o anche semplicemente scampoli di carta colorata, formano una preziosa catasta (quasi il compost da cui si formerà l’humus) da cui l’artista può trarre nuove idee per altre opere. E’ insomma un ininterrotto circolo di creazione-distruzione di cui fa fede il traboccante aspetto del suo atelier, poiché procedendo nell’esplorazione di questo grande spazio si scopre una selva rigurgitante di materiali, una caverna mineralizzata e affascinante nella quale cascami di materiali eterocliti si alternano a splendide incrostazioni cromatiche. In questo labirinto, in questa meravigliosa e rutilante follia lo spazio lasciato libero dai manufatti più disparati è poco più di un sentiero nel mezzo di una giungla cromatico- materica nella quale parrebbe sensato farsi un varco a colpi di machete, l’artista si muove con passo sicuro e piglio ardimentoso. Il visitatore, superato il primo impatto, viene infine condotto a una minuscola radura dove il poco spazio libero è occupato da un divanetto e due seggiole.
Collina è pittore, incisore, scultore...un artifex che non ha mai smesso di sperimentare e ragionare sulle tecniche e sui fondamenti dell’arte. E mi piace pensare che la sua ricerca instancabile (è invidiabile l’energia creativa ma anche fisica che ancora lo sospinge) derivi dalla sua sensibilità didattica (egli ha tra l’altro insegnato storia dell’arte contemporanea presso l’Università dell’Insubria e ha collaborato con Mario Botta nell’ambito dei suoi seminari presso l’Accademia di Architettura di Mendrisio). Per altro l’esecuzione di ogni sua opera può essere relativamente veloce (è il caso delle illustrazione della Divina Commedia) o fonte di rovello e ripensamenti quasi infiniti. Il suo è un antiaccademismo esibito fin dai titoli dei molti cataloghi che costellano la sua lunga carriera (si è diplomato a Brera nel 1962 sotto la guida di due mostri sacri dell’arte del XX secolo, Marino Marini e Guido Ballo). Di pari passo rispetto al rifiuto della “bella forma”, un aspetto certamente centrale del suo lavoro è il fortissimo e concomitante interesse letterario che accompagna l’opera pittorica e con essa dialoga (egli scrive da anni una raffinata pagina quindicinale sulla “Provincia” e il suo atelier rigurgita di libri).
Se è quasi banale affermare che ogni artista comasco, anche solo inconsciamente, si confronta di necessità (e di necessità supera) con l’eredità razionalista del capoluogo lariano, sarebbe fuorviante classificare Collina secondo la dicotomia concreto/astratto. Egli si muove piuttosto su un crinale vivacissimo che può assumere di volta in volta l’una o l’altra forma espressiva, ma sempre sforzandosi anzitutto di oggettivare l’idea.
L’opera di ogni pittore è fatta di periodi e stagioni, tra loro molto diversi. Tra questi mi piace sottolineare il suo interesse per il paesaggio lombardo, così presente (per usare un’approssimazione geografica) nella pittura insubrica, una “linea lombarda”, per trasmutare la celebre definizione di Dante Isella, che da Morlotti (il più eterodosso tra i tradizionalisti) risale almeno fino a Bellotto.